È possibile procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo collegato all’incompatibilità ambientale se vi è la prova concreta che la condotta del lavoratore abbia minacciato e minacci il regolare funzionamento dell’azienda e dell’impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore, di modo da rimediare alla disfunzione organizzativa creatasi.
Tale licenziamento, seppur ricollegabile al comportamento del dipendente, non configura una sanzione a un suo inadempimento, ma si basa sul giustificato motivo oggettivo delle ripercussioni negative che il comportamento del lavoratore genera sull’azienda.
Questo quanto stabilito dal Tribunale di Treviso con sentenza n. 416 del 29 maggio 2025.
1. Il caso
Una lavoratrice veniva licenziata per giustificato motivo oggettivo sulla base di una situazione di incompatibilità ambientale venutasi a creare tra quest’ultima e i colleghi a causa di frequenti episodi di tensione verbale e litigi, per il linguaggio volgare utilizzato dalla dipendente e per continue manifestazioni di asserita persecuzione personale.
Nella lettera di licenziamento veniva evidenziata inoltre la necessità, nell’ottica di contenimento dei costi, di esternalizzare in outsourcing, a una società terza, le mansioni di controllo qualità della dipendente.
La lavoratrice agiva in giudizio per l’annullamento del licenziamento per GMO per totale carenza dei presupposti.
2. Licenziamento per GMO e incompatibilità ambientale
Il Tribunale di Treviso ricorda che è possibile procedere a un licenziamento per giustificato motivo oggettivo collegato all’incompatibilità ambientale se risulta provato che:
- la condotta del lavoratore abbia minacciato e minacci il regolare funzionamento dell’azienda;
- sia impossibile il ricollocamento del lavoratore per rimediare alla disfunzione organizzativa venutasi a creare.
Pertanto, in assenza della prova che la condotta del dipendente abbia minacciato e minacci il regolare funzionamento dell’azienda, non sarà possibile ritenere sussistente il giustificato motivo oggettivo.
Nel caso di specie, dai documenti di causa e dalle prove orali non era emersa la sussistenza di situazioni tali da incidere in maniera significativa, e non meramente contingente, sulla gestione economica dell’azienda e sulla normale attività produttiva.
Venivano addebitate alla lavoratrice una pluralità di condotte dolose che avrebbero determinato una situazione di “incompatibilità ambientale”, ma tale definizione “appare volta piuttosto a definire le conseguenze della condotta attribuita al dipendente, non tanto a definire una circostanza oggettiva, che invero dalla prova per testimoni non è emersa”.
La società, inoltre, non aveva fornito elementi tali da consentire di accertare la necessità di esternalizzare le mansioni della lavoratrice al fine di contenere i costi.
Quest’ultima, infatti, non solo non aveva specificato adeguatamente la presunta difficoltà finanziaria tale da portare all’esigenza di contenimento dei costi, ma nemmeno era stata dimostrata alcuna riduzione del fatturato né la chiusura in perdita dell’esercizio di riferimento.
Sulla base di questi motivi il Tribunale accertava l’illegittimità del licenziamento per mancanza del giustificato motivo oggettivo.
3. Conclusioni
In presenza di condotte del lavoratore di entità tali da minare il regolare funzionamento dell’azienda e qualora risulti provata l’impossibilità di ricollocare lo stesso, per rimediare a tale disfunzione organizzativa il datore di lavoro potrebbe procedere al licenziamento per GMO del dipendente.
Differenti sono gli strumenti che il datore di lavoro potrebbe attuare per far fronte a una situazione di incompatibilità ambientale creatasi nell’ambiente di lavoro.
In primo luogo, l’attivazione di un procedimento disciplinare nei confronti dei lavoratori coinvolti con l’obiettivo di ristabilire un clima lavorativo sereno.
Qualora dovesse persistere la situazione di incompatibilità ambientale tra il lavoratore e i colleghi, concretizzandosi un’oggettiva esigenza di modifica del luogo di lavoro, l’azienda potrebbe trasferire il dipendente; il provvedimento troverebbe la sua ragione, infatti, nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva ed è collegato alle esigenze tecniche, organizzative e produttive previste dall’art. 2103 c.c. (cfr. Cass., n. 27226/2018).