1. Sintesi

Con ordinanza n. 30469 del 2 novembre 2023, la Corte di Cassazione ha confermato la pronuncia della Corte territoriale con la quale era stata disposta la reintegrazione nel posto di lavoro della lavoratrice in quanto il fatto – l’alterco verbale intervenuto con una cliente -, pur esistente nella sua materialità, non presentava profili di illeceità.

2. La fattispecie e le motivazioni a supporto dell’illegittimità del licenziamento

La vicenda trae origine da un contenzioso promosso da una lavoratrice che era stata licenziata per essersi rivolta in modo scortese, alzando la voce e in presenza di altri avventori, nei confronti di una cliente che si era introdotta nell’esercizio commerciale dopo l’orario di chiusura, approfittando dell’apertura delle porte per l’uscita di altri clienti, noncurante delle segnalazioni effettuate dalla stessa lavoratrice circa l’avvenuta chiusura del punto vendita.

Il Tribunale di Pescara aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intervenuto, ordinando la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro e condannando la società datrice al pagamento dell’indennità risarcitoria.

La Corte d’Appello confermava le statuizioni del Tribunale di Pescara, sulla scorta delle seguenti motivazioni:

  • la tutela reintegratoria attenuata prevista dall’art. 3, comma 2, del D.lgs. 23/2015 – la lavoratrice, infatti, era stata assunta in data 7 aprile 2015 – trova applicazione nel caso di specie;
  • la nozione di insussistenza del fatto materiale deve essere intesa nel senso di necessaria illiceità del comportamento addebitato al lavoratore e sul quale si fonda il licenziamento. Ne consegue che “non basta che la condotta si sia verificata in rerum natura, ma occorre che abbia assunto un compiuto carattere illecito”;
  • i citati principi, che sono stati affermati dalla Corte di Cassazione in relazione all’art. 18 della L. n. 300/1970, trovano applicazione anche nella vigenza del D.lgs. 23/2015.

 

3. Considerazioni della Corte di Cassazione a conferma della decisione assunta dalla Corte d’Appello

Sulle citate basi, la Corte territoriale ha confermato che, nella fattispecie in esame, pur essendo la condotta sussistente nella sua materialità, essa non presentava alcun profilo di illiceità. Infatti, a seguito dell’istruttoria, non era stato dimostrato che la lavoratrice fosse stata ingiustificatamente scortese ed offensiva nei confronti della cliente. A tale proposito, la Corte territoriale ha osservato che è pur sempre il datore di lavoro che deve dimostrare la sussistenza del fatto contestato, giuridicamente qualificato in termini di illecito, sicché in difetto di tale prova il fatto è da ritenersi insussistente.

La Corte territoriale ha valorizzato anche l’unicità dell’episodio in quanto la condotta della lavoratrice era comunque risultata isolata, essendo quello in commento il solo episodio contestato alla stessa in circa due anni di rapporto lavorativo e non risultando, così, violata la previsione di cui all’art. 220 del CCNL Terziario, sotto il profilo della gravità richiesta dall’art. 225, comma 4, del CCNL Terziario.

Inoltre, la Corte territoriale aveva escluso la rilevanza delle mancate scuse della lavoratrice alla cliente, poiché di tale ulteriore condotta non vi era traccia nella contestazione disciplinare.

La Corte di Cassazione ha giudicato infondato il motivo di impugnazione proposto dalla società datrice, la quale aveva lamentato la violazione “per falsa applicazione” dell’art. 3 del D.lgs. 23/2015 per aver la Corte d’Appello applicato tale norma nonostante il fatto materiale (l’alterco verbale con la cliente) fosse sussistente, avendo la medesima Corte d’Appello ammesso che la lavoratrice aveva ecceduto nei modi e nelle parole utilizzate nei confronti della cliente.

Secondo la Corte di Cassazione tale motivo di impugnazione è infondato perché la Corte d’Appello ha fornito una duplice motivazione a supporto dell’illegittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice: (i) la prima e principale è volta ad escludere la sussistenza del fatto inteso nel senso materiale unitamente alla sua illeceità; la seconda, ipotetica e secondaria, volta ad escludere la “gravità” della condotta addebitata tipizzata dal CCNL applicato ai fini della giusta causa di licenziamento.

A detta della Corte di Cassazione, ciascuna delle citate motivazioni è da sola sufficiente a sostenere la decisione della Corte d’Appello.

In particolare, con riguardo alla prima e principale motivazione, la Corte territoriale – con apprezzamento insindacabile in sede di legittimità, laddove (come nella fattispecie) correttamente motivato – ha affermato che la condotta della lavoratrice “pur esistente nella sua materialità, non presenta profili di illiceità, atteso che, come è emerso dall’istruttoria, non è dimostrato che la lavoratrice si sia rivolta alla cliente … con modalità ingiustificatamente scortesi e gratuitamente offensive” (cfr. sentenza impugnata, p. 7, punult. cpv.)”.

Pertanto, il giudizio della Corte di Cassazione è nel senso che i giudici d’appello abbiano fatto corretta applicazione dei principi di diritto affermati dalla medesima Corte di Cassazione in relazione alla novella apportata dalla L. 92/2012 all’art. 18 della L. 300/1970, secondo cui la tutela reintegratoria c.d. attenuta si applica non solo nel caso in cui la materialità del fatto non sia dimostrata, ma altresì nel caso in cui il fatto, ancorché esistente nella sua materialità, sia privo di illiceità, offensività o antigiuridicità tale e necessaria per essere disciplinarmente rilevante.

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