È illegittimo il licenziamento intimato a distanza di 6 mesi dal superamento del comporto e dopo 4 mesi dal rientro in servizio del lavoratore se le condotte tenute dal datore di lavoro (quali la proposta al dipendente di un periodo di aspettativa non retribuita, l’affidamento di nuove missioni e la convocazione per colloqui al fine di favorire l’impiego del lavoratore) sono inequivocamente indicative della sua intenzione di non esercitare il diritto di recesso.
Così deciso dal Tribunale di Vicenza con sentenza n. 140 del 22 marzo 2025.
1. Il caso
Un lavoratore somministrato impugnava il licenziamento per superamento del comporto irrogatogli dalla società in quanto tardivamente adottato, a distanza di 6 mesi dal superamento del periodo di conservazione del posto e dopo 4 mesi dal rientro in servizio del lavoratore.
Secondo quest’ultimo, l’intervallo temporale trascorso dal rientro in servizio e le condotte tenute dall’azienda (quale, ad esempio, la proposta di fruizione di un periodo di aspettativa non retribuita, la convocazione presso altre filiali per allargare le possibilità di lavoro e la fissazione di colloquio per aggiornamento del curriculum) manifestavano una chiara rinuncia all’esercizio del diritto di recesso.
2. Perdita del diritto di ricesso a seguito di manifestazione di volontà abdicativa del datore
Il Tribunale accoglie il ricorso del lavoratore.
A fronte, infatti, di 253 giornate di assenza (il limite era 180) realizzate dal lavoratore nell’arco di un anno la società non prendeva alcuna iniziativa, vale a dire non contestava il superamento del comporto.
Solamente in occasione di un ulteriore singolo giorno di assenza per malattia, verificatosi dopo quattro mesi dal rientro in servizio del lavoratore, e dopo aver proposto al dipendente di fruire dell’aspettativa non retribuita, la società comunicava il licenziamento per superamento del comporto.
Tali condotte “sono inequivocamente indicative dell’intenzione della datrice di lavoro di non esercitare il diritto di recesso pur a fronte di un rilevante superamento del periodo di comporto, avendo evidentemente ritenuto che le assenze verificatesi sino ad allora non incidessero sulle proprie esigenze organizzative sino al punto di dover sacrificare l’interesse del ricorrente alla conservazione del posto”.
Nel caso di specie, la società non era stata in grado di dimostrare perché la valutazione effettuata dopo la singola giornata di assenza del lavoratore avrebbe radicalmente cambiato la posizione dell’azienda in ordine all’interesse all’esercizio del recesso, cosicché lo stesso appariva del tutto immotivato.
Una sola giornata di assenza non è, infatti, idonea a cagionare significativi disservizi per l’azienda né è indice del fatto che il dipendente sia affetto da problemi di salute tali, con giudizio prognostico, da privare l’azienda della risorsa con frequenza eccessiva. Pertanto, il recesso adottato violava i principi di buona fede e correttezza.
In definitiva, al momento del licenziamento la società aveva rinunciato alla possibilità di recedere per superamento del comporto maturato in precedenza, avendo pertanto agito in carenza dei presupposti.
3. Conclusioni
Il datore di lavoro che intenda procedere al licenziamento alla scadenza del periodo di conservazione del posto dovrà procedere con tempestività o comunque entro un intervallo temporale ragionevole.
A titolo esemplificativo, comportamenti quali il ritardo nella comunicazione del licenziamento, l’accettazione del rientro in servizio del dipendente, la fissazione della visita di sorveglianza sanitaria del dipendente (cfr. Cass., n. 25535/2018), oppure la proposta di fruizione di un periodo di aspettativa non retribuita (come avvenuto nel caso di specie), potranno essere giudicati quali sintomatici della volontà datoriale di rinuncia al licenziamento (cfr. Cass., n. 6874/2025) e condurre all’illegittimità del provvedimento adottato.