La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 14301 del 22 maggio 2024, ha stabilito che è illegittimo il licenziamento della lavoratrice per ristrutturazione aziendale (non dunque cessazione dell’attività aziendale, integrale o parziale) nel periodo di un anno dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, cui è seguita la celebrazione dello stesso.

Nel recesso per causa di matrimonio, infatti, ciò che rileva non è l’intento, discriminatorio o meno, dell’azienda ma il dato oggettivo che il licenziamento è avvenuto nel periodo protetto.

Solo tre ipotesi ben specifiche sono idonee a superare la presunzione legale di licenziamento a causa di matrimonio:

  • colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
  • cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;
  • ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine.

1. Divieto di licenziamento per causa di matrimonio

L’art. 35 del D.lgs n. 198/2006 prevede che sono nulli i licenziamenti attuati a causa di matrimonio; si presume tale il licenziamento della dipendente nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, in quanto segua la celebrazione, a un anno dopo la celebrazione stessa.

È data facoltà al datore di lavoro di provare che il licenziamento della lavoratrice, avvenuto in tale periodo protetto, è stato effettuato non a causa di matrimonio ma per una delle seguenti ipotesi:

  • colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro;
  • cessazione dell’attività dell’azienda cui essa è addetta;
  • ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine.

La Corte di Cassazione con la pronuncia in commento ripercorre la ratio della tutela garantita alle lavoratrici contraenti matrimonio chiarendo in quali casi è consentito al datore di lavoro di provare che il licenziamento non è avvenuto a causa di matrimonio.

2. La vicenda processuale

La Corte d’Appello di Milano confermava la pronuncia di primo grado che aveva dichiarato la nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato da una società a una dipendente per riorganizzazione aziendale a causa di una forte crisi finanziaria, circa 3 mesi dopo che quest’ultima aveva informato l’ufficio personale e il proprio superiore che avrebbe contratto matrimonio (le pubblicazioni erano state effettuate in prossimità di tale comunicazione).

Avvero tale decisione la società ricorreva in Cassazione.

Ad avviso della stessa, considerato che la lavoratrice era impegnata in un rapporto di stabile convivenza sin da marzo 2018 doveva ritenersi inoperante, al momento del licenziamento (giugno 2019) la presunzione di nullità ex art. 35 D.Lgs n. 198/2006; in forza della comparabilità di convivenza more uxorio e matrimonio, l’unico interesse tutelato dalla norma non era stato in concreto violato.

3. I chiarimenti della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ricorda che la limitazione alle sole lavoratrici della tutela accordata dalla norma (art. 35 D.Lgs n. 198/2006) non ha natura discriminatoria ma è al contrario coerente con la realtà sociale e fondata su una pluralità di principi costituzionali posti a tutela dei diritti della donna lavoratrice.

Inoltre, nell’ordinamento interno, in forza della costitutiva differenza della persona umana e della sua diversa vocazione generativa e relazionale in ambito familiare, è apprestata, sotto il profilo assistenziale, una più forte tutela prioritaria dalla normativa relativa al congedo di maternità (presidiata da apposita sanzione penale).

Dopo aver ripreso il contenuto dell’art. 35 del D.Lgs n. 198/2006 la Corte di Cassazione conferma, come già rilevato dalla Corte d’Appello che nel licenziamento per causa di matrimonio “ciò che rileva non è l’intento, discriminatorio o meno, del datore di lavoro, bensì il dato oggettivo che il licenziamento è avvenuto nel periodo di un anno dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio cui è seguita la celebrazione dello stesso, dato oggettivo che non è contestato”.

Inoltre, è ben delimitata l’area entro la quale è consentito all’azienda di provare che il licenziamento della lavoratrice, avvenuto nel periodo intercorrente dal giorno della richiesta delle pubblicazioni di matrimonio, a un anno dopo la celebrazione dello stesso è stato intimato “non a causa di matrimonio”.

Solamente tre ipotesi ben precise sono idonee a superare la presunzione legale del ricorrere di tale causale di licenziamento, nello specifico la colpa grave della lavoratrice, la cessazione dell’attività dell’azienda alla quale è addetta e l’ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o di risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine.

Nel caso di specie si era trattato appunto di una ristrutturazione d’azienda e non di una cessazione dell’attività aziendale, integrale o parziale; appariva dunque corretta la scelta dei giudici di merito di non approfondire dal punto di vista istruttorio la vicenda di riorganizzazione aziendale allegata dalla società quale giustificato motivo oggettivo alla base del recesso.

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