La giurisprudenza si è pronunciata in molte occasioni circa l’applicazione del principio di tempestività nei casi di superamento del periodo di conservazione del posto, vale a dire, se alla scadenza dello stesso il licenziamento debba essere tempestivo o se al contrario il datore abbia a disposizione un determinato periodo di tempo per esercitare il recesso.
Secondo l’indirizzo dominante in materia (cfr. Cassazione, 11 settembre 2020, n. 18960, 20 marzo 2019, n. 7849) il datore di lavoro può recedere non appena terminato il periodo di conservazione del posto, dunque anche prima del rientro in servizio del lavoratore.
Tuttavia, è riconosciuto alla parte datoriale uno “spatium deliberandi” al fine di poter valutare nel complesso la sequenza di episodi morbosi del dipendente in relazione agli interessi dell’azienda.
In altri termini, il datore ha il diritto di attendere il rientro in servizio del lavoratore malato per poterne valutare un possibile riutilizzo nell’assetto organizzativo dell’impresa senza che tale attesa valga quale rinuncia all’esercizio del recesso.
“Solo in tale contesto l’eventuale prolungata inerzia datoriale, da valutare a decorrere dal rientro del lavoratore, può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia al licenziamento e può ingenerare un corrispondente affidamento da parte del dipendente” (Cassazione, 20 marzo 2019, n. 7849).
La Corte di Cassazione ha dato seguito a tale orientamento con la recente ordinanza n. 6466 del 12 marzo 2024.
1. La vicenda processuale
Nel caso di specie un lavoratore agiva in giudizio per l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento per superamento del comporto adottato dalla società nei suoi confronti.
Ad avviso del dipendente sarebbe stato illegittimo il rifiuto della società alla sua richiesta di fruire di 30 giorni di congedo straordinario non retribuito previsto dal ccnl e tardivo il licenziamento intimato dopo circa 40 giorni dal superamento del comporto dopo aver ripreso il lavoro.
La disposizione del ccnl applicato prevedeva che “prima che siano superati i limiti di comporto, il lavoratore a tempo indeterminato, perdurando lo stato di malattia, può richiedere un periodo non retribuito di aspettativa per motivi di salute della durata massima di 12 mesi, commisurato a quanto indicato nella certificazione medica.”
La Corte d’Appello riteneva legittimo il licenziamento; in primis la richiesta di 30 giorni di congedo era stata respinta dall’azienda per mancanza della documentazione sanitaria da cui risultasse espressamente la durata del periodo richiesto (termine iniziale e finale).
In secondo luogo, veniva ritenuto congruo l’intervallo temporale intercorso tra il superamento del comporto (6.11.2009) e il licenziamento (15.12.2009) necessario ad una prognosi di sostenibilità delle assenze rispetto al permanere dell’interesse dell’azienda.
2. La pronuncia della Cassazione
La Corte di Cassazione, richiamando la disposizione del ccnl precisa che l’uso del termine “commisurato” indica che l’aspettativa per motivi di salute può essere richiesta nella misura necessariamente indicata nella certificazione medica.
Nel caso di specie, la certificazione del medico dopo la diagnosi riportava la dicitura “tale stato necessita di periodi di riposo saltuario e non necessariamente di periodi continuativi”.
Come correttamente rilevato dalla Corte d’Appello, tale attestazione non era pertanto sufficiente a giustificare l’aspettativa richiesta dal lavoratore per 30 giorni, considerato che non vi era un nesso necessario tra la certificazione dell’evento morboso e la durata richiesta.
La Corte di Cassazione, in ordine alla tempestività del licenziamento, precisa che, ferma restando la possibilità per l’azienda di recedere non appena superato il comporto (anche prima del rientro del lavoratore), allo stesso tempo il datore di lavoro ha la facoltà di attendere il rientro di modo da verificare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all’interno dell’assetto organizzativo dell’azienda.
Solo a decorrere dal rientro in servizio del dipendente, l’eventuale prolungata inerzia del datore dal recedere può essere sintomatica della volontà di rinunciare al licenziamento e ingenerare un incolpevole affidamento nel soggetto.
Viene ribadito il principio secondo cui in tali casi “l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole spatium deliberandi che va riconosciuto al datore di lavoro perché egli possa valutare nel complesso la convenienza ed utilità della prosecuzione del rapporto in relazione agli interessi aziendali”.
Infine, la tempestività del licenziamento non si risolve in un dato cronologico fisso e predeterminato ma costituisce valutazione di congruità che deve fare il giudice di merito caso per caso, con riferimento all’intero contesto delle circostanze significative.
Sulla base di queste argomentazioni la Corte di Cassazione respingeva il ricorso del dipendente.
3. Conclusioni
La Corte di Cassazione con la pronuncia in commento riprende un indirizzo ormai consolidato.
È consentito alla parte datoriale sia recedere dal rapporto non appena terminato il periodo di comporto che attendere il rientro in servizio del lavoratore per poter valutare un suo possibile riutilizzo nell’assetto organizzativo dell’azienda senza che tale attesa sia sintomatica di una volontà di rinuncia all’esercizio del recesso.
Ciò non significa che al datore sia concesso un termine discrezionale nell’adozione del licenziamento che dovrà essere comunque adottato in un intervallo temporale ragionevole.
Non esiste alcuna norma di legge che prescriva i termini da osservare affinché il licenziamento per superamento del comporto possa dirsi tempestivo; bisognerà valutare caso per caso, effettuando un bilanciamento tra l’esigenza del datore di disporre di un ragionevole intervallo temporale per valutare in concreto se sussistono margini di riutilizzo del dipendente in azienda e l’affidamento del dipendente alla prosecuzione del rapporto.
In definitiva, il principio di tempestività in tale licenziamento andrà applicato e adattato caso per caso sulla base di criteri sicuramente più flessibili rispetto ai casi di licenziamento disciplinare, caratterizzati dall’immediatezza del recesso, che non esimono tuttavia le aziende dall’effettuare tutte le valutazioni imposte da tali fattispecie al fine di non incorrere in contestazioni circa la tardività del licenziamento.